Diamo inizio con oggi a questa nuova rubrica settimanale dal titolo «Le parole della dottrina» e ci sembra quanto mai utile ed appropriato iniziare con un tema di cui, con più vivacità, oggi si dibatte, anche per le particolari circostanze storico-culturali ed internazionali che siamo chiamati a vivere.
La libertà religiosa affonda storicamente le proprie radici in un passato remoto, laddove essa si identifica come rivendicazione dei credenti del diritto di professare la propria fede rispetto all’autorità costituita ed al clima culturale dominante.
Le civiltà dell’antichità non conoscevano l’esigenza di una distinzione tra la sfera civile e quella religiosa. Il sovrano, in esse, coincideva con la divinità, venendo a costituire il punto di convergenza del sacro e del profano, del civile e del religioso. Tale concezione filosofico-religiosa permarrà anche nella giuridicamente evoluta civiltà romana, nella quale la rivendicazione imperiale della divinità rappresenterà un vero e proprio obbligo legale-morale per il popolo, rivelativo della lealtà verso lo stato.
Tra le culture antiche è quella ebraica ad introdurre una prima distinzione tra l’obbedienza ad un potere costituito che rivendica prerogative divine e l’obbedienza alla propria coscienza ed a quanto da essa domandato.Vera novità nel panorama storico, filosofico e giuridico dell’antichità è costituita dal cristianesimo, che, rivendica la libertà di non bruciare l’incenso all’imperatore e di professare la fede in Gesù Cristo.
Scrive Tertulliano, con singolare incisività: «Fate attenzione che non sia già un crimine di empietà il togliere agli uomini la libertà di religione e proibire loro la scelta delle proprie divinità. Vale a dire il non permettere di onorare chi si vuole onorare» (Apologeticum, XXIV, 6).
Il principio di distinzione tra sfera civile e sfera religiosa è introdotto nella storia dell’umanità dalle parole di Gesù Cristo: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22, 21).
La testimonianza del martirio dei cristiani nei primi tre secoli della nostra era è una delle più significative pagine della storia della libertà religiosa, che deve sempre essere difesa e rivendicata a qualunque prezzo. Una storia nella quale libertà religiosa e libertà di coscienza, pur distinte filosoficamente, si intrecciano storicamente, mostrando come i due concetti siano assolutamente inseparabili ed anzi si relazionino in una chiara circolarità di reciproca giustificazione.
La libertà religiosa si presenta così come elemento costitutivo della persona umana, suo diritto nativo e naturale, indisponibile a qualsivoglia impedimento esterno sia di carattere statale e pubblico sia di tipo relazionale-interpersonale. L’unico «condizionamento» tollerato dalla libertà religiosa è quello dell’obbedienza e della coerenza con la propria coscienza, in armonia con il retto uso della ragione che cerca la verità e vive secondo la verità trovata e nel rispetto dell’ordine pubblico. Di tale «ordine» sono parte integrante il rispetto per l’altro ed il noto principio di reciprocità.
La positivizzazione giuridica della libertà religiosa vede, nell’età contemporanea, un fiorire di dichiarazioni, documenti internazionali, costituzioni statali nelle quali è ormai definitivamente affermata come diritto inalienabile. Le ideologie del XX secolo, il rinascere degli integralismi religiosi ed una certa diffusa mentalità ideologicamente abbarbicata su posizioni laiciste, incapaci di autentico dialogo, costituiscono la cornice in cui, anche nel cuore della cosiddetta «post-modernità», è possibile fare esperienza di gravi violazioni della libertà religiosa, mostrando come essa rappresenti sempre e comunque un principio da difendere con indomita vigilanza.
Il pieno recupero del tema da parte della dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II (AAS 58-1966, 929-946), che fonda il diritto alla libertà religiosa sulla dignità della persona umana e ne domanda pieno riconoscimento agli ordinamenti giuridici delle società, sia per i singoli sia per le comunità, rappresenta un imprescindibile contributo alla comprensione della natura della libertà religiosa stessa. Il testo conciliare deve essere tuttavia compreso alla luce di una precisa circostanza storica (la condizione dei cristiani perseguitati nei regimi totalitari del XX secolo) e di una imprescindibile condizione teologica: l’esclusione di qualunque forma di pluralismo teocentrico che tendesse a porre tutte le religioni sul medesimo piano veritativo. Se gli uomini che le professano hanno medesimi diritti e dignità, non è eludibile in nessun caso la questione della verità. Con l’inizio del pontificato di Benedetto XVI, felicemente ci si trova oramai al «dialogo della verità». Esso si fonda necessariamente sul riconoscimento condiviso – contro qualsiasi pretesa relativista – che la Verità è stata rivelata e si è resa conoscibile ai credenti.