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Cultura e dialogo interreligioso.

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Qualcuno considera la venuta dei musulmani in Europa come un “segno dei tempi”; potrebbe esserlo nel quadro più ampio del movimento migratorio di uomini e donne di altre religioni che arrivano per diverse ragioni in mezzo a noi, in un momento di grande crisi e debolezza dell’identità cristiana europea. Di che cosa un tal movimento potrebbe essere segno? Il Signore potrebbe voler provocare i cristiani a riprendere attraverso le parole e le opere il dialogo della salvezza con costoro, fine proprio della missione di evangelizzazione della Chiesa. O li considereremo come una realtà impermeabile all’azione dello Spirito?

     Tutto questo, si osserva, può valere per noi europei in gran parte cristiani, condizionati a pensare e agire secondo le regole cristiane; se fossimo nati in Asia saremmo musulmani o buddisti o credenti di altre religioni professate laggiù. Di conseguenza noi cristiani non potremmo avere il diritto di vagliare alla luce della Verità Rivelata le altre religioni, perché  sarebbero tentativi di relazione tra l’uomo e il soprannaturale, e chiunque dev’essere libero di cercare a suo modo e secondo le proprie possibilità la verità.

      Innanzitutto si deve ricordare che agli inizi il cristianesimo si è rivolto ai greci, oltre che ai giudei, perché  intravedeva  nella loro ricerca filosofica, secondo una espressione dei padri della Chiesa, i semisparsi dal Verbo di Dio nella stessa ratio umana. Non ha contrapposto la ragione alla religione ma le ha unite, per pacificarsi e approfondirsi reciprocamente. Questa volontà di razionalità apre alla verità e a ciò che lega tutti gli uomini. Si deve qui individuare da un lato la posizione che vede all’interno delle religioni una qualche predisposizione alla verità cristiana, dall’altra quella che vede nel pluralismo delle religioni un fenomeno diversificato di una attesa incompiuta. Ma un seme o  «un raggio di verità» ( Dichiarazione Nostra aetate,  2) presente nelle religioni, non è la verità. Per questo il culto cristiano, espressivo di una fede biblica realistica e irriducibile al mito o al simbolo, ha valorizzato quanto di buono avevano quei culti. E la filosofia greca si è incontrata in modo provvidenziale con la fede biblica. Perciò, si deve condividere la tesi di Ratzinger (Fede, Verità, Tolleranza, Siena 2003, p 96-98) che non si possa parlare  di “ellenizzazione” senza le necessarie precisazioni.

     In secondo luogo, l’opinione suddetta piuttosto diffusa entra in contraddizione con un fenomeno ordinario: l’uomo, professando una religione, aderisce ad una determinata idea di Dio; poi, se questa idea non lo convince, ne ricerca una più verosimile. Di norma l’uomo che cerca la verità, può arrivare a comprendere quale proposta religiosa risponda o meno alla sua attesa.Dunque, la fede cristiana, non viene da una determinata cultura, fosse anche quella europea, anche se lascia spazio ad ogni cultura, ma proviene dalla rivelazione di Dio, come dimostra sin dall’inizio la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste col prodigio degli apostoli ascoltati nella lingua di quanti erano a Gerusalemme. 

Infine, non si può sostenere che il cristianesimo sia una religione europea sia per il fatto che è nato in oriente, sia perché la storia della Chiesa nelle successive fasi di evangelizzazione dimostrano che esso ha assunto una forma “interculturale”, cioè universale, coerentemente con la sua nota cattolica. Soffermiamoci su questo termine tanto in voga, anche se un po’ in crisi dopo l’11 settembre 2001. Ratzinger porta i casi del greco Platone, che il cristianesimo ha saputo valorizzare lasciando cadere quanto era anticristiano, e di Agostino che, vista la novità e alterità del cristianesimo, passò dall’Ortensio di Cicerone alla Bibbia: gli fu richiesto come un esodo, una “frattura culturale” implicante la morte e la rinascita, come già era avvenuto per Abramo e per il popolo d’Israele ( Ivi, p 90-93). Si può constatare che la fede cristiana irrompe dal di fuori come una nuova nascita e non proviene da esperienze interiori, e il sacramento del battesimo lo sta a dichiarare. Ad onta di certe accuse ai missionari europei di aver colonizzato il nuovo mondo con un cristianesimo europeo e malgrado taluni eccessi, il cristianesimo cattolico per un verso si è presentato nella sua forma di provenienza, per un altro ha rivestito quella indigena dimostrando tutta la sua versatilità. Basti pensare al lavoro di unificazione e diversificazione del rito latino nelle varie lingue e cerimonie, compiutodopo il concilio di Trento e ancora dopo il Vaticano II. Ci sembra che la “interculturalità” sia quella che nasce dal trascendimento o dalla purificazione e trasformazione degli aspetti migliori delle culture; una cultura che si limitasse ad inserirsi nella serie, sarebbe un’operazione senza senso. Bisognerebbe domandarsi come si faccia a rimanere paghi di un pluralismo che non permetta di incontrarsi in una unità più grande e nella verità. 

Per promuovere tutto questo, è del tutto ragionevole la decisione di papa Benedetto di servirsi di un unico strumento: il Pontificio Consiglio della Cultura e del dialogo interreligioso.

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