La verità è sempre una, armonica, libera e liberante. Tutto concorre ad affermarla, eccetto la volontà ostinata di chi la rifiuta. I falsi miti di progresso, a differenza della verità, sono invece distonici con tutto, eccetto che con la volontà ostinata di chi tenta, faticosamente e senza esito, di giustificarli.
Una, armonica, libera e liberante appare, ancora di più in queste settimane, la verità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, essenzialmente aperta alla vita, difesa dalla normale ragione (detta buon senso) e testimoniata dai semplici. Il silenzio di migliaia di uomini e di donne, le sentinelle in piedi, che hanno manifestato nelle piazze dei comuni italiani, lo scorso 23 gennaio, e l’auto-convocazione gioiosa e festante di centinaia di migliaia di famiglie italiane, che hanno pacificamente gremito Circo Massimo e dintorni, per poi, altrettanto pacificamente, tornare alle proprie case e al proprio lavoro, sono testimonianza di questi semplici, ragionevoli, dotati di buon senso.
La menzogna sottesa al testo di legge sulle unioni civili è palese. Emerge non solo dalla considerazione di quelle ovvietà, che solo dieci anni fa non avremmo mai pensato di dover difendere; non solo dal paragone con l’ininterrotto insegnamento del diritto, ma anche dal confronto con gli stessi riferimenti normativi cui vorrebbe richiamarsi, in primis la Costituzione. Basti considerare sia gli artt. 2 e 29 (rispettivamente sui diritti inviolabili dell’uomo, che chiamiamo “naturali”, poiché fondati sulla sua identità essenziale e precedenti ogni riconoscimento giuridico e sul matrimonio), strattonati dalla stessa Cirinnà, sia l’art. 72, che prevede per ogni nuova legge l’esame nella relativa commissione parlamentare, prima dell’approdo ad una Camera, per la votazione; esame che, per il ddl in questione, è stato incostituzionalmente saltato. La menzogna continua con il riferimento alle leggi ordinarie cui il ddl continuamente rimanda: esse riguardano l’istituto giuridico pubblico del matrimonio e l’adozione.
Ad esempio, l’art. 5 della Cirinnà, modifica l’art. 44 della Legge 184 del 1983, dal titolo: “Il diritto del minore ad una famiglia”, ed esattamente ne modifica la lettera “b” del primo comma, che recita: «[I minori possono essere adottati] dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio, anche adottivo, dell’altro coniuge». Con la “modifica-Cirinnà”, il nuovo testo reciterebbe: «[I minori possono essere adottati] dal coniuge, o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, nel caso in cui il minore sia figlio, anche adottivo, dell’altro coniuge, o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».
Si tratta di un vero e proprio “innesto normativo”. Come in ogni innesto, quindi, sarà tanto più probabile il rigetto, quanto più la parte innestata – le unioni civili e le relative pretese – presenterà estraneità e incompatibilità con il corpo che dovrebbe riceverla, la famiglia naturale e le sue proprie prerogative, secondo la legge naturale del rigetto nel trapianto.
Durante l’intervento in Senato del 2 febbraio, la Cirinnà ha affermato: «Abbiamo scelto la via delle unioni civili per rispondere a criteri di prudenza, nella convinzione che alla piena eguaglianza si potrà arrivare passo dopo passo» (Sic!).
Guardiamo dunque quale passo si vorrebbe compiere, per mezzo dell’art. 5, e quale sarebbe, poi, l’auspicato “passo successivo”: la piena equiparazione al matrimonio.
Tanto è vero che all’art. 3, primo e secondo comma, senza farvi esplicito rinvio (menzogna!), sono letteralmente trascritti gli art. 143 e 144 del Codice civile, rispettivamente dedicati ai diritti e doveri reciproci dei coniugi e all’indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia; articoli particolarmente noti ai sacerdoti, che, a nome dello Stato, ne danno lettura agli sposi al termine di ogni Celebrazione del matrimonio concordatario.
L’obiettivo è dichiarato, senza se e senza ma: la totale equiparazione al matrimonio. Anche se i primi due commi dell’art. 3 cercano di dissimularlo, parlando di “bisogni comuni”, anziché di “bisogni della famiglia”, e di “residenza comune”, anziché di “residenza della famiglia”, non si resiste dal trascrivere integralmente: «Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare». Se gli autori del testo non osano ancora attribuire la parola “famiglia” a questa “formazione sociale”, non esitano però a definire “familiare” (menzogna!) la vita tra persone dello stesso sesso, che abbiano costituito un’unione civile.
Al quarto ed ultimo comma dell’art. 3, in chiusura, sperando forse che passi inosservato, dopo aver rinviato integralmente al regime patrimoniale proprio del matrimonio, si afferma: «Le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono […] si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge nonché alle disposizioni di cui al Titolo II della legge 4 maggio 1983, n. 184». “Excusatio non petita, accusatio manifesta” insegna un antico adagio. Ecco il passo successivo in programma! Il titolo II della legge 184 del 1983, infatti, è dedicato alle disposizioni generali in materia di adozione ed il suo primo articolo, il sesto, afferma al primo comma: «L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni» e, al secondo: «I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare». Quindi le unioni civili potrebbero essere dispensate da tale idoneità e capacità?
La strategia della Cirinnà è chiara: le unioni civili sono ancora in fase di “costruzione”; le adozioni sono un tema particolarmente caldo: l’unica maniera per farle passare è simulare l’urgenza di una tutela per i minori, attraverso il “caso limite” della morte dell’unico genitore superstite – o esercente la patria potestà – e convivente con persona dello stesso sesso. (menzogna!). Il rinvio alle disposizioni generali aprirebbe un dibattito, ora insostenibile dal parlamento, circa l’effettiva idoneità e capacità educativa di due persone dello stesso sesso, conviventi. Inoltre, sarebbero necessari almeno tre anni di “unione civile”, per invocare il povero principio di uguaglianza anche a questo proposito. E si profila, così, una discriminazione contro il matrimonio naturale, che deve attendere 3 anni per adottare!
Infatti, nell’art. 5 del ddl, non ritenendo “prudente” tentare ora l’accesso alle disposizioni generali in materia di adozione (cioè sapendo che la menzogna se è troppo grossa non passa!) si bussa al citato Titolo IV della legge 184 del 1983: “Dell’adozione in casi particolari”, estendendo alle unioni civili la possibilità per uno dei due partner di adottare il figlio dell’altro.
Ben si comprende l’originale e buona finalità della norma del 1983. Considerando che in Italia, stando alle statistiche Istat dell’ultimo censimento del 2011, le famiglie monogenitoriali sono 2.651.000: contraendo valido matrimonio, il coniuge “non-genitore” adotta il figlio, o i figli dell’altro coniuge e questi, coniugi e figli, costituiscono così un’unica famiglia, giuridicamente fondata e tutelata.
Si comprende meno, invece, come il Titolo IV della legge possa riguardare, invece, le unioni tra persone dello stesso sesso. Dal punto di vista normativo, infatti, rappresenta un’operazione indebita: non si possono bypassare le disposizioni generali di una materia normativa, invocando esclusivamente quelle “particolari” (Esame del primo anno di diritto!) Le norme particolari, infatti, dovranno sempre essere conformi alla ratio delle disposizioni generali e dell’intera legge. Nel nostro caso, ma la Cirinnà non lo dice (menzogna!), la legge del 1983, all’art. 1, comma 1, recita: «Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito dellapropria famiglia», intendendo per “propria famiglia” il proprio padre e la propria madre naturali.
Considerando, infine, che, secondo l’Istat, le eventuali unioni civili sarebbero appena 7.591, di cui soltanto 529 vedrebbero convolti bambini, o comunque minorenni, volendo anche impropriamente accostare queste situazioni all’istituto della famiglia, ci troveremmo di fronte allo 0,003% delle famiglie italiane. Dei bambini in questione, poi, la stragrande maggioranza hanno un padre ed una madre naturali viventi, uno dei quali avrebbe scoperto, solo in un secondo tempo, un orientamento affettivo omosessuale.
Se statisticamente non emerge alcuna reale urgenza di tutela nei confronti dei minori, a quale scopo è stato scritto l’art. 5 del ddl Cirinnà?
Come sostenere che tale normativa non legittimi indirettamente il ricorso all’utero in affitto (menzogna!) in quei paesi nei quali è stato legalizzato, per ridurre l’Italia – e con lei l’Europa intera – al far west genetico e genitoriale; l’ennesima terra di conquista del mercato miliardario eugenetico internazionale?
Un consiglio per tutti i cittadini i italiani: cattolici e non, gerarchie e laicato, padri e madri di famiglia, giuristi, medici, filosofi, insegnanti, donne e uomini di buon senso e buona volontà: leggete il testo integrale del ddl Cirinnà. Usate venti minuti della vostra vita oggi, per difendere il futuro dei nostri figli e del nostro Paese domani. Anzi oggi.