Secondo alcuni il Motu proprio di Benedetto XVI rischierebbe di creare “disagio” perché l’ecclesiologia presente nel vecchio messale sarebbe “incompatibile” con quella scaturita dal Concilio Vaticano II.Cerchiamo di verificare la fondatezza di tale tesi, accostandoci al Canone romano, la preghiera eucaristica rimasta anche nel nuovo messale.In essa innanzitutto il sacerdote si rivolge al Padre e presenta l’offerta “per la Chiesa santa e cattolica”, affinché sia raccolta nell’unità – come si prega nell’antica Didachè – e Egli la guidi per mezzo del papa, del vescovo della comunità in cui si celebra l’eucaristia ed attraverso “tutti quelli che custodiscono la fede cattolica trasmessa dagli Apostoli”. Sono i celebri dittici che provano l’esistenza della comunione nella Chiesa. Nello stesso tempo si ricordano al Padre i presenti alla celebrazione e gli offerenti: “per loro ti offriamo e anch’essi ti offrono”, cioè il sacerdozio ordinato e quello comune. In secondo luogo, si afferma che la Messa viene celebrata in comunione con Maria e i Santi, la Chiesa celeste, chiedendone l’intercessione. In terzo luogo si invoca da Dio “la potenza della tua benedizione”, perché i doni siano consacrati: l’espressione è riferita allo Spirito Santo. Secondo gli studi, il Canone romano, nel suo nucleo, sarebbe anteriore alla definizione del concilio costantinopolitano del 381. Del resto, anche un’altra preghiera eucaristica antica, l’anafora copta di Serapione contiene un’epiclesi al Verbo.
Tornando al Canone romano, dopo la consacrazione si passa a far memoria al Padre del Figlio e del suo mistero pasquale, offrendo il suo Corpo e il suo Sangue quale sacrificio gradito, prefigurato in quelli di Abele, Abramo e Melchisedech; si prega che l’offerta giunga sull’altare del cielo da quello della terra. Segue l’intercessione per i defunti, la Chiesa che si purifica, e quella per la Chiesa terrena e celebrante in quel luogo. La grande preghiera si conclude con la glorificazione trinitaria e l’Amen dei fedeli.
Da questa preghiera, che dosa sapientemente la fede personale e quella comunitaria, emerge un’ecclesiologia trinitaria, ovvero di comunione che discende dal cielo, con i tratti dell’unità e della santità, della cattolicità e dell’apostolicità. La preghiera fa, ad un tempo, memoria di Gesù Cristo e del suo mistero e ne attende la venuta sia nell’oggi liturgico che nel giudizio finale. Una preghiera essenziale di adorazione. Ora, la crisi che ha colpito al liturgia è dovuta al fatto che al centro spesso non c’è più Dio e l’adorazione di Lui, ma gli uomini, la comunità; così, come diceva J.B.Metz: “La crisi di Dio viene bloccata ecclesiologicamente”.
Provvidenzialmente il Concilio ha approvato come primo atto la Costituzione sulla Sacra Liturgia, perché “All’inizio vi è l’adorazione e quindi Dio […] La Chiesa deriva dall’adorazione, dalla missione di glorificare Dio” (J.Ratzinger, L’ecclesiologia della costituzione Lumen gentium, in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B. 2004, p 132). E’ questa l’ecclesiologia del Concilio che, al di là delle accentuazioni storiche, è la medesima da due millenni nella Chiesa cattolica.
La crisi della liturgia comincia quando non è concepita e vissuta come adorazione in Gesù Cristo della Trinità e come celebrazione di tutta la Chiesa cattolica e non di una comunità particolare, di cui i vescovi e i sacerdoti sono ministri, cioè servi, non padroni. Il lamento continuo di taluni liturgisti sulla mancata attuazione della riforma e gli espedienti per renderla attraente, indicano che si è smarrito lo spirito della liturgia, riducendola ad un’autocelebrazione della comunità particolare.
Quanti esempi di relativismo liturgico (falsamente nascosto sotto il nome di creatività) ogni giorno sono sotto gli occhi di tutti: l’Eucaristia è la prima ad aver fatto le spese di un’idea di Chiesa non cattolica. A quale ecclesiologia si riferiscono coloro che intendono affermare la presunta incompatibilità del Messale del Beato Giovanni XXIII con l’attuale situazione ecclesiale?
Paventare due ecclesiologie differenti è un grave errore: significa ritenere il Concilio come momento di rottura con la tradizione cattolica, come ha detto il Santo Padre nel discorso per i quarant’anni della conclusione del Concilio Vaticano II. Il messale romano di san Pio V e del beato Giovanni XXIII, erede degli antichi sacramentari e dei messali medievali, come pure il messale di Paolo VI, è espressione dell’unica lex credendi et orandi che dà il primato al rapporto della Chiesa e di ogni fedele con Dio. E’ l’unica l’ecclesiologia che possa dirsi cattolica.