Il “pensiero debole” del filosofo torinese, che ha pervaso anche il mondo cattolico, altro non è che uno scetticismo metodologico. Ma si riscopre forte, anzi intollerante verso qualsiasi posizione contraria alla propria.
di don Salvatore Vitiello
Link all’articolo originale su “La Nuova Bussola Quotidiana“, 21 settembre 2023 https://lanuovabq.it/it/vattimo-in-fondo-al-tunnel-nichilista-scoprira-la-verita
È morto a 87 anni, il torinese Gianni Vattimo (1936-2023). Noto filosofo del “pensiero debole”, attivista omosessuale, parlamentare e politico, tra le file dei partiti di sinistra, dai Radicali fino al Partito Comunista Italiano.
Cresciuto nella Torino degli anni ’50/60’, frequenta il liceo Gioberti, militando in quella che allora era l’Azione Cattolica. E pochi sanno che la sua iniziale notorietà fu dovuta proprio ai continui inviti ad intervenire nelle parrocchie e negli oratori torinesi, i cui pastori, evidentemente, non seppero intuire il pericolo del suo pensiero.
Si interessò ben presto di filosofia, inizialmente con le letture del personalismo di Maritain e Mounier; l’incontro con Gadamer, all’Università di Heidelberg, in Germania, lo portò ad interessarsi delle questioni ermeneutiche, legate alla filosofia della conoscenza.
Sono note le sue posizioni politiche anti-israeliane (per cui ebbe a dire a Radio 24, che in Israele si faceva un «uso spregiudicato dell’Olocausto, per giustificare la propria politica di oppressione nei confronti dei palestinesi»), piuttosto che la giustificazione della violenza nei confronti della polizia, durante le manifestazioni No-Tav in Val di Susa o da parte degli anarchici nei “Fatti del G8 di Genova”; come quando, nel 2004, commentando la strage di Nassiriya, nella quale morirono 19 soldati italiani, affermò che si trattava solo di «un effetto collaterale di un atto di resistenza».
Ma a fronte di queste “posizioni forti”, Vattimo è stato l’Autore del “Pensiero debole”, quasi del non-pensiero. Discepolo del grande maestro Hans-George Gadamer (1900-2002), uno dei maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica del Novecento, riprese il suo adagio: «l’essere che può essere compreso è linguaggio», declinandolo in chiave nietzschiana, lo intese dichiarando la “vocazione nichilista” dell’ermeneutica, che non poteva che portare l’uomo alla filosofia del cosiddetto “pensiero debole”. In questa posizione, si rifaceva all’analisi intellettuale di Nietzsche e di Heidegger, affermando che non si può dire nulla dell’Essere, perché ogni verità deriverebbe dalla tradizione e non da un contatto reale con la realtà.
Per il pensiero debole, infatti, l’essere – e, perciò, l’ontologia – non è nulla in se stesso, ma solo il frutto del nostro linguaggio. Essere e linguaggio sarebbero in sé equivalenti, facendo eco alla concezione nietzschiana secondo cui «non ci sono fatti, ma unicamente interpretazioni».
Si trattava, in fondo, come ebbe a dire lo stesso Gadamer, della filosofia di Nietzsche, di un rigurgito nella modernità, del “nominalismo” volontarista, di remota origine medievale, secondo il quale i nomi delle cose non facevano riferimento alla natura stessa delle entità, alla loro essenza, ma ad una pura “convenzione”, stabilita con la volontà sovrana dell’uomo, che imporrebbe, alla realtà stessa, delle proprie categorie mentali.
Ma sta proprio qui il grande inganno del nichilismo del “pensiero debole” di Vattimo, che altro non è che uno scetticismo metodologico, mascherato di umiltà: proponendosi, infatti, come una posizione filosofica nichilista che, a testa china, si arrenderebbe di fronte all’impossibilità di conoscere realmente le cose, in realtà nasconde, al suo interno, il tarlo antimetafisico, e, per quanto “debole” quello di Vattimo finisce per essere un pensiero intollerante verso qualsiasi posizione contraria alla propria.
Si tratta, infatti, di un “lupo travestito da pecora”; di un pensiero che afferma che non esistono verità, tranne la propria, ossia quella che afferma che non si possa conoscere nulla; finendo, per altro, in un circolo vizioso di auto-delegittimazione, soprattutto nell’ ostinato inevitabile confronto con quella “testarda” della realtà.
Come ricorda Aristotele è proprio la “categoria della possibilità” l’unica vetta all’altezza dell’intelligenza umana: decidere ideologicamente e a priori che non esista una verità, la Verità, significa tradire la propria ragione, significa tradire la propria natura di uomo: «Togliere la categoria della possibilità è togliere la vita della ragione», insegnava il Servo di Dio Luigi Giussani.
Il travaglio della ricerca umana per la quale, mentre si procede nella conoscenza del Vero, questi si ritira, non significa che la Verità non esista, ma piuttosto che questa porti, in se stessa, le orme di un “insondabile Mistero” che ci chiama.
Per Vattimo, il frutto migliore del messaggio cristiano sarebbe stato la laicità, intesa come relativa mancanza di valori, secolarismo e “fede debole”, in ossequio a quel Dio che, con l’Incarnazione, avrebbe «consumato la propria trascendenza».
La via mostrata con il cristianesimo sarebbe stata dunque quella di un progressivo indebolimento dell’essere, incapace di parlare realmente all’uomo e tanto meno alla società; relegando per questo i cattolici all’ambito della «patologia sociale», perché – diceva Vattimo – alla «fisiologia sociale», ci «avremmo pensato noi».
La Chiesa, allora, avrebbe dovuto imparare dalla sua storia a «dissolvere le proprie strutture autoritarie, legittimate dalla pretesa di un accesso privilegiato» alla realtà. Quanto di più contrario a ciò che insegnava san Giovanni Paolo II, quando affermava che «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Affermazione di cui dovrebbero ben ricordarsi certi teologi che, seguendo la via del “pensiero debole” vattimiano, vorrebbero imporre la teologia della “sparizione della Chiesa”, finalmente libera dalle strutture, tutta dedita allo “spirito”, come se l’incarnazione del Verbo, in un tempo ed in uno spazio, e con precise categorie culturali giudaico-ellenistiche, fosse un optional trascurabile.
Quanta mentalità ecclesiale contemporanea è vittima del Pensiero debole…!
Solo sotto un certo punto di vista, aveva ragione Vattimo: noi non possiamo possedere la verità. Sotto questo aspetto, non possiamo che trovarci d’accordo. È infatti la Verità che possiede l’uomo, non l’uomo che possiede la verità.
Ora che è stato chiamato da Dio con la morte, potrà finalmente conoscere anche lui quella Verità-personale che per una vita ha osteggiato.
Muore senza lasciare una vera eredità intellettuale, in coerenza con la “nominale debolezza” del suo filosofare, ma avendo pesantemente influenzato il clima intellettuale subalpino e nazionale e perfino quello ecclesiale.
La Ecclesia Mater, tuttavia, celebrerà per lui le esequie nella Chiesa di San Lorenzo in Piazza Castello a Torino, (in barba alla “vocazione a scomparire” delle istituzioni cattoliche).
Ascolteremo con molta attenzione l’omelia, che sarà rivelativa di molti aspetti della penetrazione del pensiero debole.