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La partecipazione alla liturgia (III): il gregoriano, il silenzio e… il campanello

Il canto gregoriano anche per il fatto che è privo di ogni protagonismo è idoneo allo spirito della liturgia romana, come le icone per quella bizantina. E’ stato scritto da Guilmard che bisogna tener presenti il senso del testo, la forma musicale, l’andamento generale dello sviluppo melodico, il tipo di ornamentazione, lo stesso modo, il senso musicale dell’insieme. Non ultimo: il grado di competenza del coro, l’acustica del luogo, il numero dei coristi.Per non parlare della voce. Un canto, il gregoriano, che armonizza corpo ed anima, composto da contemplativi più che da grandi artisti; così ha ispirato Palestrina e può ancora ispirare la musica sacra dei tempi avvenire.Di certo il gregoriano, scrisse Giovanni Paolo II nel Breve Iubilari feliciter del 1980, resta il legame musicale unificatore dei cattolici, che fa sentire, come ha detto Benedetto XVI l’unità della Chiesa. La celebrazione deve conservare un equilibrio fonico omogeneo, per questo nei canti e nelle preghiere la voce sommessa è la migliore, essa é consona all’atteggiamento di umiltà e discrezione che dobbiamo tenere davanti a Dio. Vanno perciò evitati accuratamente i toni ‘gridati’ ma quelli sommessi, propri della preghiera fatta nel segreto(cfr Mt 6,5). In tal senso la liturgia monastica benedettina va considerata come il tipo a cui ispirarsi. Perciò, a cominciare dal sacerdote che guida il popolo di Dio, si riprenda in specie nelle solennità a cantare in gregoriano l’Ordinario – ormai conosciuto in lingua italiana – e magari alcune parti del Proprio.

      C’è poi il silenzio nella liturgia, fondamentale per ascoltare Dio che parla al nostro cuore. L’anima non è fatta per il rumore e le discussioni ma per il raccoglimento; ne è sintomo il fatto che il rumore ci da fastidio. Innanzitutto bisogna restituire alla chiesa la sua dignità di tempio sacro dove nessuno parla ad alta voce, a cominciare dai sacerdoti e ministri che danno l’esempio, ma tutti si rivolgono a Dio in umile silenzio o a voce sommessa.

      Tutto ciò costituisce il rito – termine che significa reiterazione e di cui non aver paura, perché il fedele ne ha bisogno per fare memoria di Cristo – : i riti aiutano i fedeli alla familiarità col linguaggio liturgico, grazie  alla ripetitività dei gesti e dei canti: una scelta stilistica costante ed omogenea che costituisce la nostra identità di oranti della Maestà di Dio, così diversi dalla quotidianità assordante della vita, dalla frammentazione di linguaggi e stili che distraggono l’attenzione dalla centralità del mistero. A mo’ di esempio, sono erronee e fuorvianti gli Orientamenti e Norme per Accoliti e Lettori approntati da un Ufficio liturgico diocesano. All’art 49 p 15 circa il momento della consacrazione, dopo aver ricordato la possibilità di incensazione dell’ostia e del calice consacrati, con zelo degno di miglior causa si annota: “Non devono aggiungersi a questo punto candele, campanelli, cerimonieri e altri ministri che servirebbero solo a sostituire le antiche balaustre impedendo la visione e la partecipazione al Mistero che si celebra sull’altare. Per l’uso del campanello, in realtà al numero 150 (del Coerimoniale Episcoporum) è scritto secondo le consuetudini locali, ma nella nostra Chiesa diocesana non c’è più questa consuetudine”. A parte l’equiparazione di persone e cose, e l’ignoranza circa il significato e la funzione della recinzione (balaustra in occidente e iconostasi in oriente) che da epoca giudeo e paleocristiana distingueva il santuario o presbiterio dalla navata o aula, sembra, per l’estensore delle suddette,  che il Mistero si debba vedere meglio senza tale “area” – oggi si usa “presbiteriale o ministeriale” – e quindi parteciparvi. Poveri torcieri e …povere balaustre – non dico l’iconostasi, perché non è corretto parlar male degli orientali  – colpevoli di non far partecipare i fedeli! Dove con grave scempio sono state smantellate, non sembra che la fede sia aumentata. Salveremo il patrimonio della fede proprio lasciandolo nel suo habitat che è la liturgia e non relegandolo nei musei diocesani e  nei concerti nelle chiese.

     Quanto al campanello, con piglio degno di miglior causa, uno ha deciso per tutti che “non c’è più questa consuetudine”. Ma se si va in giro lo si sente ancora, perché pare, malgrado tutti gli sforzi dei ministri, che ai fedeli accade di  distrarsi, e il campanello, molto più discreto di un richiamo verbale, aiuta a raccogliersi nel momento più solenne. Esso – fratello minore delle campane – con il suo suono rinnova l’eterno ricordo di Dio. O vogliamo abolire anche le campane?       Meno male che alla fine gli Orientamenti e Norme in questione concludono: “…la Chiesa non ci offre liturgie intangibili regolate ovunque con norme ferree. Offre possibilità di scelta e spazi di adattamento”. Dunque, al di là di ‘orientamenti e di norme’ …ciascuno s’arrangi come può. E’ questo lo spirito della liturgia di cui hanno parlato Romano Guardini e Joseph Ratzinger e, in mezzo, il Concilio? Se la liturgia non è opus Dei, a lode della Sua gloria, dove va a fondarsi l’ ars celebrandi? Urge la formazione dei futuri sacerdoti, l’educazione dei fedeli e in primis dei ‘liturgisti’.

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