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Il Sacro Cuore e il “mistero dell’umano”

Se è vero che la bella icona del Cuore di Cristo è stata nel tempo differentemente interpretata, oscillando tra i due estremi di un sentimentalistico devozionalismo e di una intellettualistica, e quasi razionalistica, “rilettura teologica”, è altrettanto vero che il richiamo al “cuore”, nella Sacra Scrittura rimanda ineludibilmente ad un centro personale ed esistenziale, al nucleo della persona stessa, nel quale convergono quelle facoltà che la distinguono essenzialmente dal resto del creato.

Guardare al “Sacro Cuore di Gesù” significa porre l’attenzione al grande mistero della Sua umanità, del Suo essere l’uomo perfetto, compiuto, in vista del Quale tutte le cose sono state create e nel Quale siamo stati scelti prima della creazione del mondo (cfr. Ef 1,4).

Che Dio abbia prescelto l’Incarnazione come metodo per automanifestarsi agli uomini, elevando così la stessa natura umana a “luogo epifanico” della Sua realtà di Amore, non può non continuare a stupire, soprattutto nella chiara e teologicamente certa consapevolezza del permanere della presenza di Cristo morto e risorto nella Chiesa, Suo mistico corpo.

Celebrare il Sacro Cuore di Gesù significa allora, innanzitutto, fare memoria dell’Incarnazione del Verbo eterno e, nel contempo, porre, con particolare accento, l’attenzione sulla straordinariamente affascinante umanità di Cristo.

Se la differenza tra l’umanità del Signore e la nostra povera umanità rimane irriducibile, poiché differente è la Persona su cui esse insistono, appare tuttavia in tutta la sua grandezza e nel suo fascino il cammino di continua personalizzazione a cui ciascun uomo è chiamato.

In questo senso il riferimento al “cuore” è un invito ad accogliere se stessi come “mistero” nella consapevolezza, progressivamente acquisita, che ciascuno partecipa di una irriducibilità e di una costitutiva apertura all’infinito, documentata da esigenze ed evidenze, che sono l’eco più eloquente dell’essere “immagine e somiglianza di Dio” (cfr. Gn 1,26-27).

Proprio in questa dimensione di mistero, pur nella consapevolezza di tutti i limiti ed i peccati a cui proprio l’umano espone, è necessario ricomprendere il proprio cuore, la propria dimensione personale ed umana. Essa non è oggi, come da molte parti si vorrebbe intendere, la causa del pericoloso e dilagante antropocentrismo. Al contrario assistiamo ad una sempre maggiore “riduzione dell’umano”, riduzione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue capacità conoscitive nei confronti della realtà e della verità: il relativismo filosofico ha inevitabilmente investito anche l’idea di uomo, mortificandone i desideri e riducendone le aspirazioni infinite.

Una creatura che non si concepisca in relazione con il proprio Creatore, un uomo che censuri la propria costitutiva apertura all’infinito e, in definitiva, il proprio “cuore”, la propria essenza umana, vive una radicale “distrazione dall’io” che nulla ha a che vedere né con il giusto superamento dell’egoismo, né con una corretta antropologia cristiana.

Guardare al “Cuore di Gesù” significa allora rivalutare con umiltà e verità il prodigio dell’umano che Dio stesso ha voluto assumere. Particolarmente nella giornata per la Santificazione del clero, significa guardare all’umanità di Cristo come al modello per ogni sacerdote che «preso tra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (Eb 5,1).

Lo sguardo all’umanità di Cristo, lungi dal creare sterili sensi di colpa per l’inevitabile inadeguatezza di ogni altra umanità, deve aprire all’accoglienza di se stessi, della propria dimensione umana intesa come mistero, come segno eloquente della costante e fedele presenza del Signore il quale, anche attraverso tutti i limiti, parla all’uomo ed al sacerdote: «Cristo non ci salva dalla nostra umanità, ma attraverso di essa; non ci salva dal mondo ma è venuto nel mondo perché il mondo si salvi per mezzo di Lui (cfr. Gv 3,17)» (Benedetto XVI, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2006).

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